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E' qualcosa che fanno, qualcosa che sono. E' la loro inconsapevolezza. La loro mancanza di conoscenza degli altri. Il fatto di non rendersi conto di ciò che fanno agli altri, della distruzione che hanno causato e che stanno ancora causando. No, pensò. Non è quello. Non lo so; lo sento,...
L'ultimo sorriso di Primo Levi
di GUIDO VERGANI
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TORINO - Non c'è ancora alcun segno esterno di lutto, né paramenti, né il libro per le firme del cordoglio.
Il portone di Corso Re Umberto è stato sbarrato. E' di legno chiaro, più nuovo del palazzetto fine Ottocento che ha l'intonaco consunto. Le finestre del terzo piano sono chiuse. Hanno tendine bianche. Al citofono di Primo Levi risponde una voce di donna: la prego, non c'è nessuno. La portiera, Jolanda Gasperi, ha già finito di spargere segatura sul pavimento nero dell'ingresso, là dove, fra l'ascensore, i primi gradini della scala e la guardiola, si è schiantato il corpo dello scrittore. Non c'è più sangue, ma quella segatura ne è intrisa. E la memoria porta in primo piano le ultime frasi di "Se questo è un uomo":... Sul pavimento, l'infame tumulto di membra stecchite, la cosa Somogyi.
La cosa era un vecchio compagno di baracca nel lager di Auschwitz. Morì la sera prima che arrivassero i russi, il 27 gennaio del 1945. Anche in questo dignitoso ingresso borghese, la morte deve aver avuto l'infame aspetto di un tumulto di membra. La portiera racconta: erano da poco passate le 10, come ogni mattina, ero salita da Levi per portargli la posta. No, niente di particolare: qualche dépliants pubblicitario, un libro, una rivista. Niente, insomma, che avesse potuto turbarlo. Mi ha accolto come al solito. Un sorriso, un grazie. Non ho notato in lui nulla di strano. Sapevo che da tempo era depresso. Come fa a non esserlo uno che ne ha passate tante? Ma, con me, non ha mai lasciato trasparire il suo stato, le sue tristezze. La moglie, la signora Lucia, era uscita per la spesa. Sono tornata giù. Ho sentito un tonfo. Ho guardato dai vetri della guardiola e ho visto il corpo sfracellato. Non c'è stato più niente da fare.
Non c'era più tempo, se non per il dolore. Erano, secondo la ricostruzione della polizia, le 10 e 20. Fra il quotidiano rito della posta e il ritorno di Jolanda Gasperi alle sue faccende di portineria, erano passati pochi minuti. Primo Levi si è gettato nella tromba delle scale per larga parte occupata dal gabbiotto dell'ascensore. Prima di schiantarsi a terra, il corpo deve avere sbattuto più volte nelle strutture dell'ascensore, rimbalzando tra la ringhiera e il gabbiotto. Gli urli di Jolanda Gasperi hanno richiamato l'attenzione del dentista Francesco Quaglia che vive nello stesso palazzo e ne amministra il condominio. E' accorso. Povero amico mio, dice, una visione terribile. Bastava un'occhiata per capire che non c'era il minimo margine di speranza. Pochi istanti più tardi è rientrata Lucia, la moglie, e si è trovata dentro a quella tragedia anche visiva. Non abbiamo fatto in tempo a coprirle la scena. Mi ha abbracciato fra le lacrime. Ha mormorato: era molto stanco, demoralizzato. Sapevo che Primo soffriva di depressione. (...) Si era isolato. Credo fosse molto preoccupato per le condizioni della madre. Ha 92 anni ed è stata colpita da ictus cerebrale.
(...) In questa Torino, svuotata dal fine settimana e dalla prima giornata di autentica primavera, sono poche le voci, i testimoni che possono aiutare a comprendere i perché del suicidio, della decisione di farla finita, semmai è possibile a chi resta vivisezionare le ragioni, i misteri della psiche, l'accumulo di sofferenze, di dolore che stanno dietro alla scelta della morte. In queste ore, la moglie Lucia, il figlio Renzo, che ha 32 anni e vive in un appartamento accanto a quello dei genitori, la figlia Livetta, che abita a Roma, chiedono di non addentrarsi nelle miserie della cronaca, di rispettare la loro angoscia. La porta di casa Levi rimane chiusa.(...).
(12 aprile 1987)
Guido Vergani, la Repubblica.it