Quando lo vidi entrare nella mia stanza, senza bussare, diversamente da quello che mille volte gli avevo insegnato fare, avendolo anche minacciato (e se non l’avevo picchiato era perché lui era più forte di me), quando dunque lo vidi entrare con i suoi occhi a mandorla spalancati per la paura, non riuscii ad arrabbiarmi. Ne aveva combinata una delle sue. Dai, Pol, dimmi cos’hai fatto. Sai che ti aiuterò. Poverino. (Vietato dirgli poverino, ma proprio quando mi sfilavo gli auricolari dell’iPod e vedevo l’angoscia nei suoi occhi di cinesino, pensai, tu guarda, “poverino”; ti aiuterò Pol, stai tranquillo). «Che hai fatto?» Volevo dirglielo dolcemente, ma mi uscì con un moto di fastidio. «Mertè». Disse soltanto “Mertè”. E stette zitto. Sa dire “Mercè” e addirittura “Merxe”, che odio a morte, come mi chiamano gli zii d’Albaida. Lui spesso mi chiama “Mertè”. Immagino che quando lo pronunciò per la prima volta fece ridere tutti, e anche lui, con i suoi sbuffi (gli stessi di quando imiti un asino che raglia) doveva ridere e doveva sentirsi soddisfatto della sua impresa. Quando poi diventi grande, è difficile avere successo, non è vero Pol? Sono tutte feste quando si è piccoli. Ma passa. Passa in un lampo. «Allora, cosa hai fatto?» Silenzio...leggi le prime 35 pagine del libro pdf

ISBN 978-88-6564-095-1